Inizialmente il Big Quit (o Great Resignation) si riferiva al numero record di dipendenti che, tra aprile e dicembre 2021, hanno lasciato il lavoro negli Stati Uniti. Il termine ha poi varcato i confini statunitensi, fino a descrivere un po’ dovunque il fenomeno delle Grandi Dimissioni.

Il termine Big Quit, o Great Resignation, nasce negli Stati Uniti nel 2021 per descrivere il boom di dimissioni volontarie da parte dei lavoratori, soprattutto nei settori con maggiore stress, scarsa flessibilità o bassi salari. Il fenomeno si è poi diffuso anche in Europa, Italia inclusa, con effetti rilevanti sul mercato del lavoro e richiedendo nuove strategie aziendali per trattenere i talenti.

 

Che cos’è il Big Quit e cosa significa?

Letteralmente “Big Quit” vuol dire “grande licenziamento”. L’espressione indica un fenomeno attualmente in corso che vede molti dipendenti lasciare volontariamente il posto di lavoro per diversi motivi. In Italia ci si riferisce a questo fenomeno anche con l’espressione “Grandi dimissioni”.

A differenza di una crisi occupazionale, il Big Quit non nasce dalla mancanza di lavoro, ma dal desiderio crescente dei lavoratori di migliorare la propria qualità della vita professionale. In molti casi, il licenziamento volontario è motivato dalla ricerca di un maggiore equilibrio tra vita privata e lavoro, da condizioni contrattuali più eque o dalla necessità di uscire da ambienti percepiti come tossici.

 

I motivi della Great Resignation

Durante la pandemia i cosiddetti "lavoratori essenziali" si sono trovati ad affrontare un carico di lavoro ingente, spesso senza un adeguato compenso. Sono stati chiamati “eroi” ma pochi sono stati indennizzati a dovere.

Per questo motivo molti dei lavoratori precedentemente impegnati in prima linea hanno deciso di licenziarsi tra la fine del 2020 e l'inizio del 2021. Non solo: anche il ricorso allo Smart Working, imposto nelle fasi cruciali dell’emergenza sanitaria, ha fatto nascere nuove esigenze e priorità. I lavoratori hanno capito che lavorare da casa può garantire un miglior equilibrio tra la vita privata e lavorativa e fa risparmiare il tempo e il denaro necessario per gli spostamenti casa-ufficio e viceversa. Da qui, il licenziamento e la conseguente ricerca di posizioni più flessibili.

Tuttavia, la pandemia sembra aver solamente accelerato un trend in atto ormai da diverso tempo. Secondo i sondaggi, la maggior parte dei lavoratori si licenzia poiché considera la sua paga troppo bassa. Seguono l’impossibilità di fare carriera e il sentirsi poco considerati dai propri capi.

In sintesi, tra le principali cause del Big Quit troviamo:

  • Burnout diffuso, soprattutto nei settori della sanità, dell’istruzione, della logistica e del retail.
  • Carichi di lavoro poco sostenibili, spesso aggravati dal lavoro a distanza mal gestito.
  • Scarsa valorizzazione professionale, con mancanza di percorsi di crescita e riconoscimento del merito.
  • Richiesta di maggiore flessibilità, in particolare lavoro ibrido o da remoto.
  • Rifiuto della cultura aziendale tossica, percepita come rigida, controllante o poco inclusiva.

 

Il Big Quit in Italia

Sì, il Big Quit esiste anche in Italia. Nel nostro Paese si osserva infatti un aumento delle dimissioni volontarie. Secondo i dati INPS, nel solo 2023 sono state oltre 2 milioni e 300 mila le dimissioni volontarie presentate nei settori privati non agricoli, con un aumento del 7,3% rispetto al 2022.

Il fenomeno colpisce in particolare i giovani under 35, le donne e i profili tecnici altamente specializzati. Tra le Regioni più coinvolte: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, che mostrano i tassi più alti di turnover volontario.

Sempre secondo i dati disponibili dall’INPS, nei primi tre mesi del 2022 il tasso di licenziamento è stato superiore del 35% rispetto al primo trimestre del 2021 e del 29% rispetto al primo trimestre del 2019. A lasciare il posto di lavoro sono stati prevalentemente i più giovani.

 

Perché anche i giovani lasciano il posto fisso?

Una ricerca condotta dal Politecnico di Milano mette in cima alla classifica l’esigenza di un lavoro agile. I lavoratori più giovani sono in cerca di proposte che permettano loro di lavorare da remoto, per risparmiare sui costi (degli affitti e dei trasporti) e per gestire al meglio la vita privata e familiare. Ma, alla base della decisione di licenziarsi, vi è spesso anche un malessere emotivo: solamente il 17% degli intervistati si è detto soddisfatto del modo in cui la sua azienda lo include e lo valorizza, mentre l’83% dei lavoratori non vede riconosciuto il suo merito e non si rispecchia a pieno nei valori dell’impresa.

 

Come può un’azienda affrontare il Big Quit

L’imprenditore deve, per prima cosa, capire perché le persone si licenziano. Le aziende che vogliono trattenere i talenti devono abbandonare i modelli organizzativi rigidi e proporre un ambiente lavorativo più umano, inclusivo e flessibile.

In secondo luogo, sarà necessario mettere in atto strategie per trattenere i talenti, cercando di capire come essere un buon manager e donando ai suoi dipendenti sicurezza, stabilità, motivazione e serenità.

Per prevenire i licenziamenti è necessario valorizzare le differenze dei dipendenti: la Diversity è tra le politiche più apprezzate e più ricercate, specialmente dai più giovani. In secondo luogo, è necessario stilare per i dipendenti un percorso di crescita stimolante. Le regole per porre fine al fenomeno della Big Quit possono essere:

  • l’ascolto del dipendente;
  • la predisposizione di piani di crescita personale;
  • la flessibilità;
  • le pratiche di Employee Retention;
  • gli stipendi adeguati;
  • la formazione.

I dipendenti devono sentirsi coinvolti e motivati.

 

Come sarà il futuro del lavoro dopo il Big Quit?

Il Big Quit rappresenta un’occasione di cambiamento culturale per le imprese. Le aziende più lungimiranti stanno già rivedendo i propri modelli HR in ottica strategica. Alcuni elementi chiave per il futuro:

  • adozione strutturale del lavoro ibrido;
  • maggiore attenzione alla salute mentale (wellbeing aziendale);
  • programmi di formazione continua e upskilling;
  • percorsi di carriera personalizzati;
  • leadership basata su empatia, feedback e coaching.

Le organizzazioni che riusciranno a valorizzare le persone, piuttosto che gestirle, saranno anche quelle più resilienti ai cambiamenti futuri.

 

Domande frequenti

Cos'è il fenomeno del Big Quit?
È un’ondata di dimissioni volontarie che ha colpito diversi Paesi a partire dal 2021. Indica la scelta dei lavoratori di lasciare il proprio impiego in cerca di migliori condizioni lavorative e personali.

Perché i giovani si licenziano più facilmente?
Perché danno priorità a flessibilità, benessere mentale e cultura aziendale. Sono meno disposti ad accettare condizioni percepite come ingiuste o stagnanti.

Il Big Quit riguarda anche l’Italia?
Sì. I dati INPS mostrano un incremento costante delle dimissioni volontarie. Il fenomeno è particolarmente rilevante tra i lavoratori più giovani e qualificati.

Quali sono le strategie per ridurre le dimissioni in azienda?
Lavoro ibrido, welfare aziendale, politiche di ascolto attivo, piani di carriera chiari e ambiente di lavoro positivo sono le principali leve per ridurre il turnover.

Qual è la differenza tra Big Quit e burnout?
Il burnout è una sindrome da stress cronico legata al lavoro. Il Big Quit è la conseguenza di insoddisfazione lavorativa, che può includere anche il burnout tra le sue cause.

 



Invia subito una richiesta